Carcinoma prostatico: come combattere le metastasi ossee

Il tumore della prostata può arrivare a coinvolgere anche le ossa, ma grazie a terapie specifiche è possibile affrontare anche questa situazione.

Il tumore alla prostata (organo maschile di dimensioni ridotte che si trova tra la base della vescica e il diaframma urogenitale, davanti all’ultimo tratto di intestino, il retto) è uno dei più diffusi negli uomini sopra i 50 anni. Quando il tumore si sviluppa, le cellule della ghiandola prostatica si moltiplicano in maniera incontrollata, portando a un aumento del volume della stessa. 

Questo ingrossamento causa sintomi, dovuti alla pressione da parte della massa prostatica sulle strutture circostanti, per certi versi simili a quelli di altri disturbi, come la prostatite e l’ipertrofia prostatica benigna (anch’essa caratterizzata da una ghiandola ingrossata, ma che non ha natura tumorale). I sintomi più comuni possono quindi includere disturbi urinari (come la difficoltà a urinare, la presenza di stimolo frequente o di dolore durante la minzione), sessuali (difficoltà a raggiungere e mantenere l’erezione, eiaculazione precoce), spossatezza, perdita di peso e di appetito, dolore alla schiena, al bacino o alla zona pelvica. A volte si può notare anche sangue nell’urina e/o nello sperma. 

Spesso i tumori che si sviluppano nella prostata restano localizzati all'interno di questa ghiandola. Esistono però anche delle forme di carcinoma in cui il tumore è più aggressivo, che possono quindi invadere i tessuti circostanti, estendersi ai linfonodi e arrivare a coinvolgere altri distretti corporei, tra cui le ossa. A questo punto il tumore della prostata può essere associato a una sintomatologia più grave, che include dolori alle ossa e altre complicazioni, ad esempio fratture ed eccessi di calcio nel sangue. 

Per questo motivo, uno degli obiettivi fondamentali della terapia del carcinoma prostatico – oltre, ovviamente, all’eliminazione o quantomeno alla riduzione del tumore in sé - deve essere la prevenzione o il rallentamento dello sviluppo delle metastasi alle ossa. Qualora le metastasi ossee fossero già presenti è inoltre necessario tenere sotto controllo il dolore e le altre possibili complicazioni ad esse correlate.

Proteggere le ossa dal tumore

Il primo passo per diminuire il rischio di sviluppare metastasi ossee è, ovviamente, la prevenzione del tumore stesso. Anche se le cause molecolari del cancro alla prostata non sono ancora ben definite (elemento che rende difficile uno screening del tutto efficace) sono stati identificati alcuni fattori di rischio, oltre all’età, che permettono di suggerire alcune strategie di prevenzione: 

- la storia familiare positiva: è stato infatti dimostrato che il rischio di sviluppare questa patologia raddoppia se in famiglia ci sono stati casi tra i consanguinei (padre, fratelli); il rischio è aumentato anche nel caso di familiari che hanno avuto un tumore al seno o alle ovaie

- alti livelli di testosterone e ormone IGF1, coinvolti nella crescita delle cellule della prostata

- l’obesità, determinata in molti casi da una dieta ricca di grassi saturi e povera di fibre e antiossidanti. In particolare, è stato dimostrato che questa condizione determina un aumento del rischio di sviluppare forme di tumore a diffusione veloce, perché lo strato adiposo che circonda la ghiandola prostatica secerne delle proteine che ‘attraggono’ le cellule tumorali, favorendo la disseminazione della neoplasia nei tessuti circostanti. 

Un altro elemento che può aiutare nella prevenzione di metastasi ossee legate al cancro alla prostata, migliorandone così la prognosi e l’aspettativa di vita del paziente, è la diagnosi precoce del tumore. È quindi opportuno sottoporsi, dopo i 40 anni, ad esami di routine (analisi dei valori di PSA ed esplorazione rettale); in caso di dubbi si può poi ricorrere ad analisi più approfondite, come l’ecografia prostatica transrettale, la risonanza magnetica e la biopsia, che consiste nel prelievo di una piccola quantità di tessuto prostatico. In caso di esito positivo, cioè di presenza di tumore, è importante valutare il grado di differenziazione delle cellule della prostata (ovvero il livello di somiglianza tra le cellule tumorali e quelle normali). Per fare ciò viene solitamente utilizzata la cosiddetta scala di Gleason, che assegna al tumore un punteggio da 1 a 5 (più basso è, minore è la differenziazione e quindi il rischio di progressione del tumore e di diffusione al di fuori della prostata). 

Accanto a questa valutazione, viene effettuata anche la stadiazione del tumore con il sistema TNM, che indica se i linfonodi sono interessati dalla neoplasia e se sono presenti metastasi, tra cui quelle ossee. Per individuare la presenza di quest’ultime – elemento che indica una patologia che è in una fase avanzata ¬– si può utilizzare, in alcuni casi, la scintigrafia ossea.

Una volta che vengono definiti grado, aggressività e diffusione del tumore è importante decidere come affrontarlo. Le opzioni terapeutiche per il tumore alla prostata sono essenzialmente due: la terapia ormonale (detta anche deprivazione androgenica) e l’intervento chirurgico di ablazione della prostata. È importante ricordare che non esiste un trattamento “giusto” per definizione: entrambi hanno vantaggi ed effetti collaterali, che è bene discutere con il proprio oncologo di fiducia, al fine di identificare l’approccio corretto, caso per caso. A questi trattamenti si può possono poi associare uno o più cicli di radioterapia, per ridurre il rischio di metastasi o di recidive, e/o di chemioterapia

Per quanto riguarda il tumore della prostata metastatico, negli ultimi anni si è assistito a un progressivo aumento di utilizzo di una classe di farmaci, i bifosfonati, per trattare le metastasi ossee: inizialmente utilizzati come additivi per i dentifrici, tali molecole, che si legano ad alcune cellule dell’osso, si sono dimostrate in grado di contrastare la crescita delle metastasi, prevenire le fratture e ridurre i livelli di ipercalcemia (alte concentrazioni di calcio nel sangue) tipicamente associati alle metastasi ossee. Si tratta di una classe di farmaci tendenzialmente sicuri, che presenta cioè pochi o nulli effetti collaterali (che si limitano di solito a febbre e dolori muscolari e articolari). 

Un effetto simile a quello esercitato dai bifosfonati può essere ottenuto anche con un altro principio attivo che ha come bersaglio gli osteoclasti, il denosumab, che può essere utile anche quando i bifosfonati non sono più efficaci. Vediamo come agiscono.

Bifosfonati Agiscono rallentando gli osteoclasti, le cellule che degradano l'impalcatura
minerale delle ossa e che spesso diventano iperattive in presenza di
metastasi ossee
Denosumab Oltre a contrastare le fratture può anche rallentare la diffusione del tumore alle ossa.

In entrambi i casi, però è necessario che la somministrazione del farmaco sia associata all'assunzione di calcio e vitamina D per prevenire i rischi di una carenza di calcio.

Radioattività amica

La medicina nucleare sfrutta l'azione dei cosiddetti radiofarmaci, molecole contenenti elementi radioattivi che una volta iniettate in vena vanno a localizzarsi nelle aree delle ossa in cui si è diffuso il tumore. Qui uccidono le cellule tumorali proprio grazie alla radioattività che emettono.

Fino a poco tempo fa, i radiofarmaci utilizzati in oncologia erano emettitori di particelle beta: le loro radiazioni penetrano in profondità, provocando a volte danni anche alle cellule sane che circondano le cellule tumorali, intaccando così gli altri tessuti e causando importanti effetti collaterali. Inoltre, per le loro caratteristiche fisiche, inducono un danno limitato alle cellule tumorali: questo può essere a volte riparato dalla cellula stessa, che quindi non muore, ma continua a crescere.

Il Radio-223 è invece il primo radiofarmaco che emette radiazioni alfa: i raggi penetrano in maniera modesta nei tessuti, senza danneggiare le cellule sane. Il Radio-223 si accumula nelle aree in cui il tessuto osseo cresce in maniera incontrollata e quindi il suo effetto è mirato sulle cellule tumorali ottenendo, nella maggior parte dei casi, la morte delle cellule stesse. Inoltre, le radiazioni alfa non hanno un raggio d’azione elevato, anzi. Sono schermate da un foglio di carta o dalla cute, e quindi non espongono parenti e amici del paziente al rischio di irradiazione. 

Gli effetti collaterali sono generalmente modesti: i più comuni sono diarrea, nausea e vomito, diminuzione del numero di piastrine (o, più raramente, dei globuli bianchi). In ogni caso, è consigliato sottoporsi, durante il trattamento con Radio-223, a esami volti a valutare il livello sia del PSA, sia della fosfatasi alcalina (un enzima coinvolto nel metabolismo osseo), in modo da tenere la salute delle ossa ben monitorata.

Il Radio-223 è indicato in particolare per i pazienti con metastasi alle ossa sintomatiche che non rispondono alle terapie che mirano a inibire la sintesi o la funzione degli ormoni androgeni (mediante rimozione dei testicoli o terapia ormonale): in questo caso si parla di cancro alla prostata metastatico resistente alla castrazione.

Una battaglia contro il dolore

I bifosfonati possono aiutare anche a contrastare il dolore provocato dalle metastasi, contribuendo così a migliorare in maniera importante la qualità della vita del paziente. Da questo punto di vista possono essere utili anche antidolorifici come l'ibuprofene, i corticosteroidi o la morfina. È importante ricordare però che ognuna di queste classi di farmaci può presentare, soprattutto se il trattamento è prolungato, importanti effetti collaterali: i corticosteroidi ad esempio possono provocare ipertensione, i farmaci oppioidi come la morfina assuefazione e dipendenza, e così via. È quindi importante vagliare tutte le opzioni terapeutiche con il proprio medico di fiducia, ed eseguire le cure in un regime controllato. 

Un altro trattamento che si può utilizzare per contrastare il dolore è la radioterapia. Quest'ultima aiuta a ridurre il dolore soprattutto se è limitato a una o poche zone. Inoltre la radioterapia può aiutare a contrastare altri sintomi riducendo le masse tumorali localizzate in altre parti del corpo, e viene quindi utilizzata anche come approccio terapeutico associato all’intervento chirurgico, alla terapia ormonale o alla chemioterapia. 

Trattamenti sempre più efficaci e sicuri vengono quotidianamente messi a punto dalla ricerca scientifica, che – a questo scopo – organizza regolarmente trial clinici su base volontaria.
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Silvia Soligon
Silvia Soligon
Romana di adozione, è nata a Milano, dove ha conseguito la laurea in Scienze biologiche e il dottorato di ricerca in Scienze genetiche e biomolecolari. Ha poi continuato a lavorare nell’ambito della ricerca scientifica prima all’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” di Novara, poi all’Università “La Sapienza” di Roma.   Nella capitale ha proseguito il suo percorso formativo con un master in Scienza dell’alimentazione e dietetica applicata. Sempre a Roma si è specializzata nell’ambito del giornalismo e della comunicazione scientifica, conseguendo il master “Le scienze della vita nel giornalismo e nelle politiche istituzionali” dell'Università "La Sapienza".    Iscritta all'Ordine nazionale dei Biologi e all'Ordine dei giornalisti è socia di Unamsi (l’Unione Nazionale Medico Scientifica di Informazione). Dal 2008 collabora con diverse testate giornalistiche e siti web per la produzione di contenuti riguardanti tematiche medico-scientifiche. Musica e cibo sono le sue grandi passioni. Oggi divide il suo tempo tra la scrittura, il lavoro di nutrizionista e i concerti.

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