Anemia mediterranea: cause, sintomi e rimedi

L’anemia mediterranea, o beta-talassemia, è una malattia ereditaria del sangue caratterizzata da un’anemia cronica. In altre parole, coloro che sono soggetti a questo disturbo presentano una conta eritrocitaria (numero totale di globuli rossi presenti nel sangue) oppure una concentrazione emoglobinica (quantità media di ossigeno contenuta in ogni globulo) cronicamente basse.

Il nome deriva dal greco “thàlassa” (mare) e “haîma” (sangue), ed è stato scelto per via della sua diffusione proprio tra le popolazioni stanziate nell’area del bacino del Mediterraneo.

A descriverla per la prima volta (nel 1925) fu Thomas Benton Cooley, un pediatra statunitense specializzato in ematologia che riscontrò in un piccolo gruppo di ragazzi dalla comune origine mediterranea (provenienti da Italia e Grecia) una grave forma di anemia, associata a un anomalo ingrossamento della milza (splenomegalia) e significative alterazioni della struttura scheletrica. Da allora gli studi dedicati all'argomento, in combinazione con i dati epidemiologici raccolti mediante screening in vari paesi, hanno messo in evidenza che questa forma di talassemia è diffusa anche in Nord Africa, Medio Oriente e nel Sud-est asiatico.

La concentrazione di casi di anemia mediterranea in Italia è soprattutto nelle regioni del Centro-Sud e in particolare in Sardegna. Alla base c’è è una mutazione del gene “beta” che inibisce la corretta produzione delle proteine dell’emoglobina, impedendo così il corretto trasporto dell’ossigeno. La causa è un difetto genetico ereditario, cioè che si trasmette dalla mamma o dal papà ai figli.

Non è sempre uguale

L’anemia mediterranea può essere di tre tipi differenti.

La forma in assoluto meno grave, che si chiama “tratto talassemico”, è caratterizzata dalla mutazione di un solo allele (ovvero solo una copia del gene) della beta-globina: si manifesta una leggera anemia, ma in linea di massima non ci sono disturbi e si è portatori sani. Conosciuta anche come beta-talassemia minor o beta-talassemia eterozigote, questa condizione è la più diffusa in Italia.

È utile conoscere tale situazione per la necessità di esaminare il partner ed offrire il consiglio genetico.

Ne esiste poi una forma intermedia, definita anche talassemia non-trasfusione dipendente, meno grave, che, come dice il nome, spesso non richiede trasfusioni anche se poi con l’età possono essere richieste. I suoi effetti si ripercuotono soprattutto sulle ossa lunghe, che risultano facilmente soggette a fratture, e sui tessuti di organi quali milza, fegato e linfonodi.

Infine, la forma di anemia mediterranea più grave, ovvero la beta-talassemia major o morbo di Cooley, chiamata anche talassemia trasfusione-dipendente. In questo caso sono colpiti tutti e due gli alleli della beta globina. La patologia si manifesta entro i primi due anni di vita, con sintomi quali stanchezza, debolezza e dispnea, talvolta accompagnate da ittero, pallore, ulcere agli arti inferiori, presenza di calcoli nella colecisti (colelitiasi), splenomegalia e ispessimento delle ossa di cranio e zigomi. Nei casi in cui si verifichi un sovraccarico di ferro, si può andare incontro anche a insufficienza cardiaca e siderosi epatica (che può compromettere la funzionalità dell'organo e causare cirrosi). La terapia è complessa e consiste in trasfusioni regolari di sangue, asportazione della milza quando è necessario, cura farmacologica dell’eccesso di ferro, trapianto di midollo osseo e terapia genica.

La diagnosi 

Il primo passo per la diagnosi di anemia mediterranea è il colloquio. «In genere la presenza di una forma di anemia microcitica, cioè un volume più piccolo dei globuli rossi, per esempio inferiore a 80 fl (femtolitri) negli adulti, e uno o più familiari portatori sani, sono indizi più che sufficienti», chiarisce Silverio Perrotta, direttore del Centro di cura delle Talassemie ed Emoglobinopatie dell’Università Vanvitelli di Napoli.

Gli esami che vengono richiesti per confermare la diagnosi di anemia mediterranea sono fondamentalmente tre:

  • esame emocromocitometrico che permette di vedere il numero aumentato dei globuli rossi, una emoglobina normale o lievemente diminuita e un volume dei globuli rossi (MCV) più basso;
  • valutazione della sideremia, della transferrina e della ferritina che permette di escludere una anemia da carenza di ferro;
  • elettroforesi dell’emoglobina per valutare la percentuale di emoglobina F e A2 (quest’ultima aumenta nella beta talassemia).

«Quando i due partner sono entrambi portatori è possibile, in caso di gravidanza, effettuare la diagnosi prenatale», aggiunge Silverio Perotta. «In tal caso è bene rivolgersi a un Centro di consulenza genetica o a un Centro di riferimento per la talassemia dal momento che vi lavorano medici e biologi specializzati nel campo».

Tra i principali compiti che la consulenza genetica si prefigge c’è innanzitutto quello di informare la coppia sul rischio del 25% di far nascere un figlio affetto da talassemia, su quale forma di talassemia potrebbe avere il nascituro e su quali sono attualmente le complicanze della malattia, i dati sulla sopravvivenza e le possibilità terapeutiche. Infine, la coppia riceve informazioni sulla possibilità di effettuare la diagnosi prenatale e sulle modalità con cui viene eseguita.

Le cure

La terapia dipende dal tipo e dalla gravità dell’anemia mediterranea. Va detto che rispetto a 20 anni fa, la qualità e l’aspettativa di vita sono notevolmente migliorate grazie alle diagnosi precoci e ai progressi nell’ambito delle cure.

Terapia trasfusionale

Consiste in trasfusioni di sangue da effettuare regolarmente in base a un ritmo stabilito dal medico oppure, nel caso di forme lievi, in momenti particolari della vita come durante la gravidanza o in seguito a crisi emolitiche causate da infezioni. «Obiettivo delle trasfusioni è correggere l’anemia grave di cui soffre il paziente talassemico e l’aumento dell’attività del midollo osseo», spiega Silverio Perotta. «Con il corretto regime trasfusionale si riesce a sopprimere l’attività eritropoietica che porta alla produzione di globuli rossi inefficienti. Ciò aiuta a prevenire il ritardo nella crescita, il danno d’organo e le deformazioni ossee consentendo lo svolgimento delle normali attività fisiche e una normale qualità di vita».

Terapia chelante

Il grande effetto collaterale delle trasfusioni di sangue è l’accumulo di ferro d’organo. È un evento piuttosto comune che si può verificare già dopo una decina di trasfusioni. L’esame di riferimento per la diagnosi è innanzitutto il dosaggio della ferritina sierica, che è un indice del ferro di deposito. Può dare però molti falsi positivi, dal momento che questo valore può aumentare anche in caso di infezioni e infiammazioni. «La diagnosi d’organo del sovraccarico di ferro è notevolmente migliorata con la risonanza magnetica di fegato e cuore», prosegue lo specialista. «Si tratta di una tecnica non invasiva, ripetibile, standardizzata e che permette di monitorare la terapia di chelazione del ferro».

Sono stati fatti grandi passi avanti anche per quanto riguarda la cura. Per molti anni, soprattutto prima del 2000, l’unico farmaco disponibile per rimuovere il ferro dall’organismo era la desferrioxamina: questa sostanza veniva somministrata sottocute per infusione lenta mediante una pompa, per circa 8-10 ore al giorno, da 5 a 7 giorni la settimana. Oggi sono disponibili due chelanti orali, il deferiprone, che viene somministrato per tre volte al giorno, e il deferasirox, che invece si somministra una volta al giorno per via orale e che rappresenta un grande passo avanti per la qualità della vita dei pazienti.

Una nuova cura

C’è molta attesa per un farmaco innovativo che ha ricevuto l’approvazione dagli Enti regolatori statunitensi ed europei e che a breve sarà approvato in Italia. «Il luspatercept ha la capacità di “inglobare” alcune delle sostanze che contribuiscono alla morte prematura dei globuli rossi nel midollo osseo», dice Silverio Perotta. «Il farmaco viene somministrato ogni tre settimane per via sottocutanea e ha permesso di ridurre il numero di trasfusioni. In particolare è stato visto in uno studio sperimentale che il 70% dei pazienti talassemici dipendenti da trasfusioni ha ridotto di un terzo il fabbisogno trasfusionale e il 10% ha addirittura dimezzato le trasfusioni».

Trapianto di midollo osseo

È la cura definitiva nel caso della forma di anemia mediterranea chiamata beta talassemia trasfusione-dipendente. Tuttavia, per poter effettuare il trapianto è indispensabile identificare i donatori compatibili. In genere si tratta di un fratello o sorella, ma è possibile anche attivare una ricerca tra i donatori di midollo. «Obiettivo è quello di sostituire le cellule staminali portatrici dei geni difettosi per la sintesi della globina con cellule staminali normali», prosegue Silverio Perotta. «L’intervento consiste nel prelievo di midollo dal donatore e nella sua infusione nel malato dopo aver “eliminato” con l’utilizzo di farmaci le cellule del suo midollo». Il donatore si ristabilisce nell’arco di una settimana, mentre per il malato i tempi sono più lunghi. Le complicanze più importanti di un trapianto di midollo sono il rigetto, le infezioni e la cosiddetta reazione del trapianto contro l’ospite. La percentuale di riuscita di un trapianto è oggi nell’ordine del 90%.

Terapia genica

L’obiettivo è quello di rendere i pazienti con talassemia indipendenti dalle trasfusioni. «Per raggiungere questo scopo, è stato condotto uno studio su nove pazienti, tre adulti, tre adolescenti e tre bambini sotto i sei anni con una forma di beta-talassemia grave, che sono stati sottoposti a terapia genica», spiega lo specialista. «In pratica, le cellule del malato sono state prelevate, modificate in laboratorio col trasferimento del gene sano e reinfuse nel malato stesso. I risultati dello studio, sostenuto da Telethon, ha aperto nuove prospettive di cura. A distanza di tre anni, per gli adulti c’è stata una riduzione del numero di trasfusioni, mentre in tre dei sei pazienti più giovani è stata ottenuta la totale indipendenza. In questi ultimi anni altri protocolli di terapia genica sono stati aperti sia in adulti sia in bambini affetti da talassemia trasfusione-dipendente con ottimi risultati».

Cinzia Testa
Cinzia Testa
Nata e cresciuta a Milano, decide da bambina di voler fare la giornalista e caparbiamente non modifica questo suo desiderio nonostante le difficoltà iniziali.  Dopo un periodo quale collaboratrice per le pagine milanesi de L’Unità nella seconda metà degli anni ’80, viene coinvolta nel primo progetto di editoria “naturale”: comincia a scrivere di alimentazione, le viene affidata una rubrica di ricette e tiene dei corsi pratici di cucina vegetariana e teorici nell’ambito dell’alimentazione. Da lì a scrivere di salute il passo è breve e nell’arco di un paio di anni avviene il “salto” e il passaggio definitivo al lavoro come freelance e la collaborazione a diverse testate come il quotidiano La Voce, il mensile del Gruppo San Paolo Club 3, per poi approdare a Donna Moderna, testata che rimane a tutt’oggi la sua principale attività. A metà degli anni ’90 viene anche coinvolta insieme a una collega nella redazione giornalistica di Attualità in Senologia, l’unica in Italia dedicata alla senologia oncologica e scatta la passione per l’oncologia. Considera il giornalismo come un momento anche di contatto e di confronto con il pubblico e ha l’opportunità di partecipare in prima persona a campagne di prevenzione sul territorio nell’ambito dell’oftalmologia (glaucoma) e dell’oncologia (tumori femminili) e di condurre con le colleghe di Donna Moderna dirette facebook su tematiche di salute ad ampio respiro. Curiosa per natura, ama viaggiare e quando può, restaura mobili e li riporta a nuova vita. Ha una passione infinita per la cucina, inventa continuamente nuove ricette e le scrive sui fogli più disparati che immancabilmente perde. Per ovviare a questa incurabile forma di distrazione, ora posta le foto dei piatti con l’elenco degli ingredienti direttamente su Instagram. Adora la solitudine come momento di ricarica, ma non potrebbe mai vivere senza le persone che ama. 

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