Tumore resistente alla castrazione: che cos’è?

Il tumore alla prostata resistente alla castrazione (CRPC) è una forma di neoplasia prostatica (metastatica o non metastatica) che diventa resistente al trattamento con terapia ormonale. In questo caso, il farmaco ormonale non comporta più benefici e si rendono necessarie altre opzioni terapeutiche.

Tumore alla prostata: le dimensioni del fenomeno

Il cancro alla prostata è una delle forme tumorali più frequenti negli uomini. Con più di 1 milione di persone al mondo a cui viene diagnosticato ogni anno, il carcinoma alla prostata è il secondo tumore più diffuso nella popolazione maschile. Anno dopo anno, il numero di diagnosi di tumore prostatico è aumentato, anche in seguito all’introduzione di alcuni esami volti a verificare lo stato di salute della prostata, come il test dell’antigene prostatico specifico (PSA). 

I pazienti affetti da tumore alla ghiandola prostatica hanno buone probabilità di sopravvivenza; l’88% di essi sopravvive a cinque anni dalla diagnosi iniziale. Si tratta di un dato in netto miglioramento rispetto a qualche decennio fa. 

I tumori alla prostata sono più frequenti con il sopraggiungere della terza età e possono presentarsi con forme, sintomi ed evoluzioni molto diverse. In alcuni casi si può ricorrere alla rimozione della prostata, con un intervento di prostatectomia che può essere di tipo parziale o radicale. In molte altre situazioni, invece, si utilizza la cosiddetta terapia ormonale.

La terapia ormonale del carcinoma prostatico si basa sul fatto che la crescita e lo sviluppo delle cellule tumorali nella prostata sono correlati ai livelli di alcuni ormoni maschili chiamati androgeni, fra cui il testosterone, prodotto dalle gonadi maschili (i testicoli) e, in minima parte, dal surrene. 

La terapia ormonale, detta anche terapia di privazione degli androgeni (ADT) o deprivazione androgenica, ha quindi l’obiettivo di bloccare l’azione degli androgeni per contrastare lo sviluppo del tumore.

Per ottenere questo risultato si possono seguire diverse strategie: 

- la rimozione chirurgica di entrambi i testicoli, detta orchiectomia bilaterale, che è il metodo più rapido per ridurre in maniera permanente i livelli di testosterone. C’è da sottolineare, tuttavia, che i risvolti psicologici che accompagnano questo trattamento, così come la sua irreversibilità e il principale effetto indesiderato correlato – ovvero l’impossibilità di avere figli senza dover ricorrere alla fecondazione assistita– scoraggiano molti pazienti; 

- l’assunzione di farmaci che inibiscono “a monte” la produzione di testosterone; questo approccio, definito anche come castrazione ormonale, prevede l’assunzione di farmaci contenenti molecole che bloccano i segnali che stimolano la produzione di testosterone, come gli agonisti e antagonisti degli ormoni LHRH o GNRH, oppure che impediscono la produzione di alcuni suoi componenti fondamentali

- l’assunzione di farmaci contenenti antagonisti degli androgeni (antiandrogeni), molecole che bloccano il legame tra il testosterone e il suo recettore (di cui è ricca la ghiandola prostatica), rendendo di fatto inattivo l’ormone androgeno. 

Spesso queste strategie vengono combinate per ottenere quello che viene definito blocco androgenico totale (BAT). 

Un problema piuttosto grave che riguarda i pazienti che si sottopongono alla terapia ormonale è quello che il tumore sviluppi la cosiddetta resistenza al trattamento ormonale (da cui deriva l’appellativo di tumore resistente alla castrazione). 

È stato calcolato che una percentuale di pazienti affetti da tumore prostatico che varia tra il 10 e il 20% sviluppi questa resistenza entro 5 anni dall’inizio della terapia ormonale. 

In questo caso ci sono varie opzioni terapeutiche che si possono prendere in considerazione. Per valutare quale sia la migliore, è necessario fare una prima distinzione tra tumore resistente alla castrazione di tipo metastatico oppure non metastatico. 

Nel cancro prostatico con metastasi, le cellule tumorali lasciano la sede originaria del tumore, ossia la ghiandola prostatica, e si spostano – tramite i linfonodi e/o il flusso sanguigno- in altri tessuti e organi. Le sedi più comunemente interessate da metastasi del tumore della ghiandola prostatica sono le ossa, seguite dal fegato e dai polmoni.

In genere le metastasi rappresentano un fenomeno tipico dei tumori in una fase avanzata, ma la probabilità di diffusione del tumore in altri organi dipende da molteplici elementi (tra cui, ad esempio, l’obesità, che sembra essere un fattore di rischio piuttosto importante). 

Il tumore prostatico non metastatico e la resistenza alla castrazione

Nel caso di carcinoma prostatico non metastatico resistente alla castrazione, ci si trova dinanzi a una patologia che non si è ancora diffusa in altri organi, ma che, al contempo, è diventata resistente alla terapia ormonale. In questo caso è bene ricorrere ad altre opzioni terapeutiche e continuare a monitorare con grande attenzione gli eventuali sviluppi del carcinoma. 

È in quest’ottica che sono in fase di studio alcuni farmaci antiandrogeni di seconda generazione, come per esempio il darolutamide: si tratta di medicinali che, assunti in forma orale, agiscono inibendo il recettore per gli androgeni. Rispetto ai farmaci di vecchia generazione, questi nuovi medicinali hanno una maggiore affinità per i recettori e, “occupandoli”, fanno sì che gli androgeni non possano svolgere la loro funzione. 

Il cancro alla prostata metastatico e resistente alla castrazione

Nel caso di cancro alla prostata metastatico, la terapia ormonale rappresenta uno standard di cura: per lottare contro la crescita delle cellule del tumore alla prostata e contrastare la sua ulteriore diffusione, è infatti necessario intervenire con una notevole riduzione del testosterone. Ci sono molti farmaci a disposizione degli operatori sanitari, che possono essere scelti in base alla condizione del paziente e allo stato di avanzamento del tumore. Anche in questo caso, però, queste terapie ormonali possono condurre allo sviluppo di una resistenza, tale per cui il farmaco, con il passare del tempo, risulta del tutto inefficace.

Nel caso di un tumore metastatico resistente alla castrazione, ci sono altre terapie ormonali che possono essere impiegate. Una di queste è la terapia a base di enzalutamide, un farmaco inibitore del recettore degli androgeni indicato per trattare i pazienti sia asintomatici sia con sintomi lievi. In situazioni in cui il tumore metastatico sia, invece, in una fase più avanzata (in particolare con metastasi ossee che comportano dolore ma senza che ci sia presenza di metastasi viscerali) si può considerare l’utilizzo di radiofarmaci come il radium-223. Si tratta di un radiofarmaco somministrato per via endovenosa; generalmente, i cicli di somministrazione del radium-223 durano alcune settimane. 

Nei pazienti con tumore alla prostata non metastatico (ma che desta comunque una certa preoccupazione in termini di possibili sviluppi) oppure nei casi in cui le metastasi si sono già sviluppate, è poi possibile ricorrere, in associazione ad altri trattamenti, anche alla radioterapia, ossia all’applicazione di raggi X localizzati che vadano a eliminare le cellule tumorali della ghiandola prostatica. Il trattamento può essere estremamente diversificato e può servire sia per scongiurare il rischio di recidiva sia per distruggere le cellule tumorali eventualmente ancora presenti a seguito di un intervento di rimozione della prostata. In ogni caso è bene sottolineare che l’efficacia di questi approcci può risultare più o meno alta, a seconda del contesto, dello stato della malattia e delle condizioni generali del paziente. 

Tumore alla prostata, prevenzione e salute

La prostata è uno degli organi tradizionalmente meno “considerati” quando si parla di prevenzione dei tumori. Grazie all’impegno degli operatori della sanità e degli specialisti, però, oggi si presta molta più attenzione nei confronti di questa piccola, delicata ma importantissima struttura.

In questo contesto è bene ricordare che un disturbo associabile a una patologia prostatica - come la difficoltà a urinare o qualche sintomo doloroso - non deve incutere immediata preoccupazione, ma deve comunque spingere il paziente a rivolgersi al proprio medico o a uno specialista per gli opportuni accertamenti. Con l’avanzare degli anni, infatti, è possibile (e quasi fisiologico) un aumento di volume della ghiandola prostatica. Questo ingrossamento, però, non è sempre causato dallo sviluppo di una massa tumorale, e con i giusti esami è possibile distinguere con relativa facilità una iperplasia prostatica benigna da un carcinoma prostatico. 

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