I farmaci contro il Parkinson

Non esiste ancora un trattamento definitivo, ma contro il Parkinson sono utili farmaci che agiscono come sostituti della dopamina.

Malattia cronica ad andamento progressivo, il morbo di Parkinson – dal nome del medico inglese James Parkinson che per primo la descrisse nel 1817 – esordisce più facilmente nell’età anziana con manifestazioni talvolta difficili da riconoscere, ma che, nel tempo, evolvono verso disabilità e deterioramento cognitivo, con gravi conseguenze sulla vita quotidiana dei pazienti e dei loro familiari.

La malattia

Alla base della malattia di Parkinson c’è la degenerazione delle cellule nervose situate in una particolare area del cervello e deputate alla produzione di dopamina.

Questo processo è probabilmente dovuto all’alterazione di una proteina che causa prima la disfunzione e poi la morte di questi neuroni, con effetti sulle capacità motorie, di deambulazione, di comunicazione e di coordinamento dei movimenti.

La dopamina infatti è un neurotrasmettitore coinvolto nella funzionalità motoria, oltre che cognitiva, e ha un ruolo nei meccanismi che regolano memoria, sonno e umore.

In Italia si stima vi siano 200.000 persone alle quali è stata diagnosticata la malattia di Parkinson. In circa la metà dei casi esordisce dopo i 60 anni di età; un malato su 100 ha un’età superiore a 65 anni e uno su dieci supera gli 80 anni.

La presenza di casi della sindrome in famiglia costituisce un fattore di rischio: circa il 20% delle persone con la malattia di Parkinson, infatti, ha parenti che ne sono o ne sono stati affetti.

Sintomi e diagnosi

La più tipica manifestazione della patologia è il tremore a riposo, spesso a carico di una mano. Sono molto frequenti anche rigidità muscolare, lentezza dei movimenti (bradicinesia) e instabilità posturale, con difficoltà a mantenere l’equilibrio.

Oltre ai sintomi più tipici, la malattia causa problemi di sonno, stipsi, disturbi della minzione, perdita dell’olfatto. Il sonno è disturbato sia per il bisogno di urinare frequentemente, sia per movimenti improvvisi e violenti che si verificano nella fase del sonno REM.

Circa un terzo dei malati, in fase avanzata, sviluppa demenza. In altri casi viene compromesso il pensiero, cosa di cui in molti casi i pazienti non si rendono conto. La demenza spesso si accompagna a sintomi psicotici, come allucinazioni e manie, che sono anche la causa di ricovero in istituti di lungo degenza.

La malattia può favorire infine la comparsa di depressione, con anni di anticipo rispetto alle manifestazioni motorie.

La diagnosi è compito dello specialista neurologo, che si basa sull’analisi della sintomatologia e della storia clinica del paziente. A tale scopo, può avvalersi di tecniche di diagnostica per immagini, anche se non esistono esami clinici e strumentali che possano confermarla direttamente.

La diagnosi nelle persone anziane è particolarmente complessa, in quanto il fisiologico processo di invecchiamento può causare alcuni sintomi simili.

In caso di dubbio il medico procede somministrando alla persona il farmaco principalmente utilizzato per trattare la malattia di Parkinson: un eventuale netto miglioramento fa propendere per la diagnosi di questa malattia.

Terapia farmacologica di riferimento: la levodopa

A oggi non esiste un trattamento in grado di guarire dalla malattia o di modificarne la progressione. I trattamenti a disposizione sono sintomatici e agiscono per lo più sui sintomi motori. Inoltre, la reazione alla terapia è soggettiva e ogni individuo risponde in maniera diversa; non è detto quindi che un farmaco efficace in un paziente produca gli stessi effetti terapeutici in tutti i malati.

In generale, le terapie sono più efficaci se iniziate subito dopo la diagnosi. La scelta del trattamento si basa sullo stato generale di salute del paziente e sulle sue condizioni cliniche.

Dal momento che la patologia causa la carenza di dopamina, sarebbe logico immaginare una semplice terapia sostitutiva. Non è possibile però somministrare la dopamina pura, perché non è in grado oltrepassare la barriera emato-encefalica e giungere al cervello. La terapia principale consiste quindi nella somministrazione per via orale del suo precursore, la levodopa.

La levodopa viene assorbita a livello intestinale, quindi arriva al cervello attraverso la circolazione sanguigna, dove viene trasformata in dopamina. Gli effetti della sua somministrazione permettono di ristabilire un controllo dei movimenti che, nei casi di malattia lieve, riporta la persona in uno stato di normalità, se pur temporaneamente. Nei casi più gravi può permettere di tornare a camminare, oltre a ridurre la rigidità muscolare, il tremore e migliorare il movimento .

Per impedire che la levodopa sia convertita in dopamina nel sangue prima di raggiungere il cervello, evitando così i suoi effetti collaterali, la terapia prevede sempre l’associazione con la carbidopa, che ne potenzia anche gli effetti. In questo modo si riduce il rischio di vomito, cali di pressione e vampate.

Tra i problemi associati all’uso di questo farmaco, si riscontra la riduzione, con l’andare del tempo, della sua efficacia. La pratica clinica suggerisce che dopo circa cinque anni di trattamento compaiono fluttuazioni motorie, con momenti in cui il paziente è in grado di muoversi alternati a momenti di totale blocco motorio (fenomeno on-off) e discinesie, cioè movimenti involontari che interferiscono con quelli volontari e che, se gravi, causano nel paziente disabilità molto importanti.

Per aggirare alcuni di questi problemi esistono formulazioni di levodopa che permettono una somministrazione regolare e costante, come cerotti e capsule a rilascio prolungato, o infusioni intestinali. Le discinesie possono comunque comparire anche in fase precoce della malattia a causa di dosi eccessive di levodopa.

Altri farmaci anti-parkinsoniani

Benché la terapia a base di levodopa sia il trattamento di riferimento, la scelta del medico può basarsi anche su altre classi di farmaci anti-parkinsoniani.

L'amantadina, un antivirale, viene impiegata sia nelle forme lievi, in monoterapia, sia associata alla levodopa per contrastare le discinesie causata dal suo impiego a lungo termine.

Gli inibitori delle monoaminossidasi (I-MAO), contrastando l’attività degli enzimi che metabolizzano la dopamina nel cervello, aiutano a prevenire la disgregazione della dopamina naturale e di quella somministrata a scopo terapeutico, prolungandone l’effetto. Appartengono a questa categoria la rasagilina e la selegilina. Somministrate da sole ritardano l’uso della levodopa, ma sono anche impiegate in associazione come integratore della levodopa. Possono causare effetti collaterali come cefalea, vertigini, confusione.

La benztropina e alcuni antistaminici e antidepressivi triciclici che appartengono alla classe degli anticolinergici possono essere utilizzati in monoterapia all'esordio della malattia, specie nei pazienti più giovani, e successivamente in associazione alla levodopa. Sono molto efficaci per contrastare il tremore, ma non agiscono sul rallentamento dei movimenti né sulla rigidità muscolare. Gli effetti collaterali a carico della memoria e la secchezza oculare ne impediscono l’uso diffuso, specie negli anziani.

Vengono utilizzati anche i cosiddetti “dopamino-agonisti”, che agiscono come la dopamina, stimolando gli stessi ricettori (i recettori dopaminergici) presenti sulle cellule cerebrali. Nelle prime fasi della malattia possono essere usati da soli o con piccole dosi di levodopa per ritardarne gli effetti collaterali. Questa classe di farmaci, particolarmente utili nelle persone di età inferiore ai 65 anni, comprende pramipexol, ropinirolo, rotigotina e apomorfina. L’apomorfina, per via iniettiva, viene usata come terapia d'emergenza per contrastare gli effetti “off” della levodopa. Agisce in pochi minuti e può essere somministrata più volte al giorno.

Entacapone e tolcapone fanno parte degli inibitori COMT (catecolo-O-metiltransferasi). Sono usati come integratori di levodopa nella fase più avanzata della malattia e per allungare l’intervallo fra le dosi di levodopa.

In futuro, grazie ai progressi della medicina, lo scenario terapeutico per questa malattia potrebbe cambiare. Sono in corso studi di sperimentazione su nuove molecole, che potrebbero nei prossimi anni modificare gli attuali orientamenti terapeutici, e su nuove tecniche di diagnostica per immagini grazie alle quali medici e ricercatori potranno “vedere” quanto accade nel cervello di ciascun paziente e, forse, comprendere i fattori che determinano le particolarità soggettive della malattia, nell’obiettivo di mettere a punto nuove terapie.

Trattamenti non farmacologici

In pazienti selezionati, senza segni di demenza né sintomi psichiatrici, da alcuni anni è stata introdotta la tecnica della stimolazione cerebrale profonda. Si tratta di un intervento chirurgico che consiste nell'impianto di elettrodi attraverso i quali viene modulata l’attività dei circuiti cerebrali coinvolti dalla malattia. Questa tecnica è efficace per ridurre i sintomi e migliorare la qualità di vita dei pazienti.

Altro trattamento in fase di studio per la malattia di Parkinson è la stimolazione magnetica transcranica, appartenente alle tecniche di neuromodulazione e già usata per trattare alcune forme di depressione: magneti posti all’esterno della testa del paziente inviano una corrente elettrica concentrata in profondità in specifiche aree del cervello.

Accanto alle terapie farmacologiche, ai pazienti con malattia di Parkinson viene consigliato di condurre una vita il più possibile attiva, praticare regolare attività fisica e seguire una alimentazione nutriente e ricca di liquidi e fibre, per mantenere la regolarità intestinale. Seguire un programma di riabilitazione può essere utile le per migliorare la tonicità muscolare e mantenere mobilità articolare.

Con il progredire della malattia attività semplici che richiedono un coordinamento e movimenti fini (vestirsi, lavarsi, allacciare scarpe e bottoni) diventano sempre più difficili. Per favorire il movimento e la sicurezza all’interno della casa può essere utile l’uso di un girello, come anche l’installazione di sbarre e corrimano in ambienti come bagno e corridoi per ridurre il rischio di caduta.

Stefania Cifani
Stefania Cifani
Nata e cresciuta a Milano, approda alla comunicazione dopo alcuni anni nella ricerca clinica e farmaceutica. Prima all’Istituto Mario Negri, presso il Dipartimento di oncologia dove si occupa soprattutto dell’aspetto della valutazione della qualità di vita negli studi clinici, in seguito presso una società di ricerche di mercato specializzata nel settore farmaceutico e ospedaliero. Nel frattempo matura l’interesse per il giornalismo e la divulgazione per cui al termine di questa esperienza, dovuta alla chiusura della società, frequenta il Master in comunicazione e salute nei media contemporanei presso la facoltà di Farmacia dell’Università degli Studi di Milano. Inizia quindi a collaborare con riviste di settore, dirette a farmacisti, e in seguito con altre testate cartacee e online rivolte sia a professionisti sia al pubblico, scrivendo articoli di medicina e salute. Giornalista pubblicista dal 2013, oggi si divide tra lavoro e famiglia, alle prese con una figlia adolescente. Quando resta un po’ di tempo ama ballare e cucinare.

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