Rappresenta ancora oggi una delle dieci principali cause di morte al mondo. Eppure si può non solo curare, ma anche prevenire.
La tubercolosi è una di quelle malattie infettive che, a torto, vengono considerate ormai superate. In realtà, secondo i dati diffusi dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) in occasione della Giornata mondiale contro la tubercolosi (World Tb Day), questa malattia rappresenta ancora oggi una delle dieci principali cause di morte nel mondo e, solo nel 2016, ha portato al decesso quasi 2 milioni di persone e ha fatto registrare oltre 10 milioni nuovi casi.
È opportuno quindi conoscere meglio il problema, le cause, i sintomi e le strategie per affrontarla al meglio.
I numeri del fenomeno
Ancora oggi esistono molti Paesi ad alta endemia tubercolare, cioè Paesi nei quali la malattia raggiunge un’incidenza annuale stimata di oltre 100 casi ogni 100 mila abitanti. Si tratta per lo più di Paesi in via di sviluppo, anche perché la tubercolosi è una malattia fortemente associata alle condizioni di vita:
scarsa igiene, cattiva alimentazione o addirittura malnutrizione e in generale cattive condizione di salute facilitano l’abbassamento delle difese immunitaria e il rischio di un’epidemia.
Anche se nella regione europea dell’OMS e in Italia si registra una bassa percentuale di casi (circa il 3% del totale mondiale), la malattia è ritenuta ugualmente un problema di sanità pubblica, in considerazione dell’aumento della mobilità delle popolazioni e della diffusione di forme di tubercolosi resistenti ai farmaci antitubercolari e quindi più difficili da trattare.
L’Italia rientra tra i Paesi a bassa incidenza della malattia (cioè con meno di 20 casi ogni 100 mila abitanti): in particolare i dati più recenti (presenti nel documento congiunto dell’ECDC, European centre for disease prevention and control, e dell’OMS Europa) rivelano che nel 2016 sono stati notificati 4.032 casi di tubercolosi , con un’incidenza in leggero calo rispetto agli ultimi 10 anni. Ben il 62% di questi casi ha riguardato immigrati. Anche per questo a febbraio 2018 sono state pubblicate linea guida specifiche per il controllo della tubercolosi tra gli immigrati, nell’ambito del Programma nazionale linee guida salute migranti.
La causa è un batterio
La tubercolosi, nota anche con la sigla tbc, è una malattia infettiva provocata da vari ceppi del genere dei micobatteri, tra cui in particolare il Mycobacterium tuberculosis detto anche bacillo di Koch.
Il contagio può avvenire per trasmissione da un individuo malato per via aerea, tramite goccioline di saliva emesse con uno starnuto o un colpo di tosse. Possibili, ma estremamente rari, sono invece i casi di trasmissione da madre a figlio durante la gravidanza.
Non basta però entrare in contatto con il batterio per ammalarsi: in una grande percentuale di casi (circa più dell’80%) il sistema immunitario riesce a renderlo inoffensivo, costruendo attorno a esso una sorta di “barriera”, i cosiddetti tubercoli (da cui prende il nome l’infezione), una sorta di noduli piccoli e duri. I batteri, così, restano nell’organismo ma senza causare malattia e si parla, in questo caso, di infezione tubercolare latente. Un soggetto con questa infezione non è malato né contagioso, ma può eventualmente diventarlo nel momento in cui le sue difese immunitarie subiscono un drastico calo.
Quando, invece, riescono ad avere la meglio, i micobatteri attraverso il sangue possono raggiungere e colpire tutti gli organi e apparati dell’organismo. La forma di tbc più diffusa, però, è quella che coinvolge i polmoni e l’apparato respiratorio: i batteri distruggono progressivamente gli alveoli polmonari, le piccole sacche situate al termine dei bronchioli (la diramazione più sottile dei bronchi), nei quali avvengono gli scambi tra ossigeno e anidride carbonica. Di conseguenza la respirazione diventa sempre più difficoltosa.
Va detto che chi è sieropositivo e viene infettato dai micobatteri si ammala di tubercolosi molto più facilmente di chi, pur infettato, non è sieropositivo, perché il virus dell’HIV indebolisce drasticamente il sistema immunitario (la tubercolosi è anche la principale causa di morte tra persone sieropositive).
I sintomi della tubercolosi
La malattia tubercolare si manifesta con:
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la comparsa di febbre e di dolore al torace
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l’aumento della sudorazione
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la perdita di peso
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la mancanza di appetito.
Sicuramente, però, il sintomo più evidente e fastidioso è la tosse persistente con catarro. Col tempo, in alcuni casi, si arrivano a espellere anche tracce di sangue nell’espettorato.
Chi ha invece solo un’infezione tubercolare latente non manifesta alcun sintomo particolare, se non la positività al cosiddetto test di Mantoux.
Come si fa la diagnosi
L’esame più diffuso per la diagnosi dell’infezione tubercolare è appunto il test di Mantoux: si inietta nella pelle dell’avambraccio la tubercolina, una proteina purificata ottenuta dal batterio responsabile della malattia. Occorre, quindi, attendere 48 ore e osservare la reazione della pelle alla sostanza: se si forma una zona arrossata e indurita attorno al punto di inoculo significa che il batterio è presente nell’organismo, ma non necessariamente che la persona è realmente malata.
In questi casi si procede a un ulteriore accertamento: considerato che l’organo generalmente più colpito è appunto il polmone si esegue una radiografia al torace che permette di evidenziare eventuali anomalie nell’aspetto polmonare tipiche della tubercolosi.
Tuttavia, secondo le linee guida internazionali pubblicate nel 1995, la diagnosi precoce della malattia si effettua analizzando in laboratorio l’espettorato della persona, ricercando col microscopio la presenza del bacillo di Koch.
Come si cura
La terapia della tubercolosi si basa sull’uso di antibiotici da assumere quotidianamente. Attualmente quelli utilizzati sono:
- isoniazide
- rifampicina
- etambutolo
- pirazinamide
- streptomicina.
Vengono prescritti in diverse combinazioni, sia per la terapia d’attacco (che dura in genere almeno due mesi) sia per quella di mantenimento. È il medico a decidere la combinazione di antibiotici più adatta al singolo caso e, anche se già dopo 24 ore dall’inizio della cura non si è più contagiosi, la terapia va protratta per almeno sei mesi.
Il trattamento con i farmaci antitubercolari va seguito scrupolosamente e monitorato attentamente con controlli periodici. In base alle linee guida internazionali già citate, infatti, è bene seguire la cosiddetta DOT, ovvero la terapia osservata direttamente, dalle lettere iniziali delle parole inglesi Directly Observed Therapy.
La DOT prevede che il paziente venga seguito costantemente da un operatore sanitario, per tutti i mesi della terapia, che si assicuri della corretta e regolare assunzione dei farmaci, degli effetti e dell’efficacia degli stessi e dell’andamento della malattia. Si tratta di una strategia terapeutica che punta a evitare l’instaurarsi di fenomeni di resistenza agli antibiotici. Inoltre, se la DOT viene seguita correttamente, il periodo di cura della tbc dura in genere circa 6 mesi.
Anche chi ha una infezione tubercolare latente viene sottoposto a una profilassi antibiotica di alcuni mesi, per evitare che i micobatteri presenti nell’organismo possano riattivarsi e scatenare la malattia.
Il problema della tubercolosi resistente
Complici terapie incomplete o non correttamente somministrate, la farmaco resistenza agli antibiotici di alcuni batteri è ormai una realtà. Anche nel campo della tbc si sta assistendo, negli ultimi decenni, alla diffusione di forme di malattia tubercolare che resistono agli antibiotici tradizionalmente usati.
Una tra le forme più pericolose e, secondo l’Oms, presente ormai in ogni area del mondo è la Mdr-Tb (multidrug resistant tb), una forma di tubercolosi resistente in particolare a due antibiotici di prima linea, la rifampicina e l’isoniazide. Richiede quindi una terapia più lunga e con farmaci antibiotici di seconda linea (come fluorochinoloni, capreomicina, kanamicina, amikacina, cicloserina, clofazimina).
Non mancano casi, fortunatamente ancora piuttosto rari, di Xdr-tb, cioè tubercolosi extensively drug-resistant, ossia resistente anche a numerosi farmaci antitubercolari di seconda linea e che, come si può intuire, diventa molto difficile da trattare.
C’è anche il vaccino
Contro la tubercolosi esiste anche un vaccino specifico, chiamato BCG, perché sfrutta il bacillo di Calmette-Guérin, un batterio attenuato derivante da un ceppo di Mycobacterium bovis che, iniettato nell’organismo, induce una reazione da parte del sistema immunitario. A differenza di altri vaccini, però, non offre una protezione totale e risulta sempre meno efficace negli adulti.
La vaccinazione è comunque ampiamente utilizzata (e anche obbligatoria) in diversi Paesi del mondo, in particolare quelli ad alto rischio di tubercolosi, soprattutto nei neonati e nei bambini, nei quali risulta ancora di rilevante importanza.
Nel nostro Paese la vaccinazione è obbligatoria (in base al decreto della Repubblica 465 del 7 novembre 2001) in due casi:
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neonati e bambini di età inferiore a 5 anni, con test tubercolinico negativo, conviventi o aventi contatti stretti con persone affette da tubercolosi in fase contagiosa, qualora persista il rischio di contagio
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operatori sanitari, studenti in medicina, allievi infermieri e chiunque, a qualunque titolo, con test tubercolinico negativo, operi in ambienti sanitari ad alto rischio di esposizione a ceppi multifarmacoresistenti oppure che operi in ambienti ad alto rischio e non possa, in caso di cuticonversione (cioè di risposta positiva al test di Mantoux), essere sottoposto a terapia preventiva, perché presenta controindicazioni cliniche all'uso di farmaci specifici.