Perché (e quando) fare l’esame del cariotipo

Consiste nell’analisi dei cromosomi, che permette di individuare anomalie che possono causare diversi tipi di malattie, ereditarie e non.

L’importante è che sia sano. È il primo pensiero quando si aspetta un bebè. Per questo motivo le coppie si sottopongono a test genetici.

Questi esami devono essere però sempre accompagnati dalla consulenza di un genetista, che spieghi alla coppia il significato dei risultati riportati sul referto, le conseguenze in termini di rischio e le possibili cure. In caso contrario, i risultati non sono utili e servono solo a generare ansia e insicurezza.

L’esame più diffuso è l’analisi del cariotipo degli aspiranti genitori, cioè la mappatura dei loro cromosomi o analisi citogenetica.

Che cos’è il cariotipo

Il cariotipo è il corredo cromosomico di una persona, che deriva per il 50% dalla madre e per il 50% dal padre. Ogni essere umano ha nel proprio Dna 46 cromosomi, divisi in 23 paia di autosomi, vale a dire cromosomi identici, 22 dei quali sono XX; l’ultima coppia stabilisce invece il sesso della persona: XX per la donna, XY per l’uomo.

Durante il concepimento, uno spermatozoo con 23 cromosomi si unisce con un ovulo che ne contiene altri 23, per dare vita a un essere umano dotato di 46 cromosomi.

Prima e dopo il concepimento

L’esame del cariotipo può essere effettuato a scopo preventivo sui genitori per verificare l’eventuale presenza di anomalie nei cromosomi che potrebbero essere trasmesse al nascituro, come per esempio nel caso della fibrosi cistica o della talassemia.

L’esame viene spesso eseguito anche quando una coppia ha problemi di procreazione in quanto alcune anomalie cromosomiche possono causare sterilità o aborti ripetuti.

Questo test può essere utile anche una volta iniziata la gravidanza, per individuare anomalie cromosomiche nel feto. L’analisi del cariotipo viene di solito consigliata quando il rischio di anomalie risulta più alto del normale, per esempio se la madre ha più di 35 anni, in caso di esito sfavorevole di un test di screening o di ecografie durante la gravidanza, oppure nel caso la coppia di genitori abbia già un figlio con anomalie cromosomiche.

In cosa consiste

Se l’analisi viene eseguita sui genitori si tratta di un semplice prelievo di sangue (o più raramente dell'agoaspirato del midollo osseo o dalla biopsia osteomidollare), mentre se si decide di analizzare i cromosomi del feto, allora sarà necessario ricorrere a un test prenatale invasivo.

Per conoscere il patrimonio genetico del nascituro, occorrerà prelevare alcune sue cellule dalla placenta (o più precisamente dai villi coriali nei quali essa si dirama) mediante una procedura nota come villocentesi, o dal liquido amniotico tramite l'amniocentesi. A orientare la scelta fra le due tecniche è soprattutto lo stadio di sviluppo del feto: la villocentesi, infatti, viene eseguita dalla settimana 10 alla settimana 13, mentre l'amniocentesi può essere effettuata solo più tardi, dalla settimana 15 alla settimana 18.

Sono stati sviluppati di recente anche test in grado di individuare alcune specifiche anomalie cromosomiche a partire dalle cellule fetali presenti nel sangue materno. Anche in questo caso, in genere si effettua un prelievo di sangue periferico, che non richiede alcuna preparazione (come ad esempio il digiuno).

Sarà il ginecologo a fornire maggiori informazioni e indicazioni utili sulle diverse metodiche per valutare pro e contro di ognuna e decidere a quale esame sottoporsi.

Una volta ottenuto dai genitori o dal feto un campione sufficiente di cellule, queste verranno analizzate in laboratorio: prima saranno messe in coltura e poi, se necessario, fatte dividere, perché è proprio durante la divisione cellulare che i cromosomi si visualizzano meglio. Si procederà quindi con la colorazione dei cromosomi e con un’analisi al microscopio (denominata analisi cromosomica o cariotipizzazione) che permetterà di individuare eventuali alterazioni nel numero o nella struttura. In questa fase i cromosomi saranno analizzati, contati e infine fotografati, in modo da ottenerne delle immagini da "ritagliare" e poi ricomporre in base ad alcune caratteristiche (come dimensioni, posizione della strozzatura e del bandeggio).

Anomalie più piccole possono essere individuate mediante un test genetico speciale che include esami specifici come quello con microarray cromosomico (CMA) e l'ibridazione in situ a fluorescenza (FISH).

I risultati si ottengono dopo circa due-tre settimane. Se l’esame viene eseguito in una struttura pubblica o privata convenzionata è gratuito o soggetto al pagamento di un ticket, mentre nelle strutture private l’esame è a pagamento e il prezzo può variare.

Che cosa si “vede”

L’esame individua due tipi di problemi: se l’esito indica un’anomalia numerica, vuol dire che è presente un numero diverso di cromosomi (in più o in meno) rispetto ai 46 caratteristici dell’essere umano. Di queste anomalie cromosomiche (dette anueploidie in medicina) sono un esempio le trisomie, che comportano la presenza di tre copie di uno stesso cromosoma (invece di due), come accade nella trisomia del cromosoma 21, che causa la sindrome di Down, e in quelle dei cromosomi 13 e 18, che causano rispettivamente le sindromi di Patau e di Edwards.

Un altro caso di anomalie numeriche sono le monosomie, cioè la mancanza di un cromosoma: è quanto si osserva nei soggetti affetti dalla sindrome di Turner, nei quali è presente un solo cromosoma sessuale (X) invece che due.

Soprattutto se non riguardano i cromosomi sessuali (come invece accade nel caso della sindrome di Klinefelter), le anomalie numeriche spesso non consentono la sopravvivenza dell’embrione, e causano un’interruzione spontanea della gravidanza.

Le alterazioni possono riguardare anche la struttura dei cromosomi, e si distinguono in:

Delezioni Perdita di un frammento di cromosoma.
Inversioni Distacco di un frammento di cromosoma che si inserisce di nuovo nello stesso punto, ma ruotato di 180 gradi.
Duplicazioni Raddoppio di un frammento di cromosoma.
Traslocazioni Scambio di un frammento tra due cromosomi diversi.

Cesare Betti
Cesare Betti
Nato a Milano, città in cui risiede, si è laureato in medicina e chirurgia all’Università degli Studi di Milano, svolgendo la professione di medico per un breve periodo di tempo all’ospedale San Giuseppe di Milano, nel reparto di medicina e chirurgia.Iscritto all’albo dei giornalisti pubblicisti dal giugno 1991, ha iniziato a lavorare come giornalista presso una redazione di riviste mediche per circa tre anni, dove si è occupato della stesura e della traduzione di articoli e di report da congressi medici.Attualmente collabora da diversi anni come free-lance con siti internet e con alcune riviste rivolte sia al pubblico sia ai farmacisti, scrivendo articoli di medicina e di salute. Inoltre, data la conoscenza in campo medico, collabora alla stesura di cartelle stampa, monografie su farmaci e report da congressi medici.Oltre a scrivere, nel tempo libero ascolta musica (soprattutto classica e lirica), adora il cinema e il teatro e non disdegna di passare qualche serata in un buon ristorante.

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