Bimbi tiranni? Ecco come gestirli

Nella gran parte dei casi diventano tiranni se gli viene chiesto di svolgere un ruolo o di assumere decisioni che, per motivi di età, non sono in grado di svolgere.

Il papà stanco alla sera si rivolge alla bambina chiedendogli: «Andiamo a dormire?». Lei risponde «No, vacci tu».

La mamma a ora di cena dice al bambino che guarda l’ennesimo cartone animato: «Adesso basta, spegniamo e vieni a tavola» e lui «No, portami la cena qui». E lei lo fa, pur di non dover affrontare liti furibonde.

Sono due classici “episodi” da bambini tiranni, ma le loro pretese possono nascondere un disagio che va interpretato.

Spiega Daniele Novara, responsabile del Centro Psico Pedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti (CPPP), autore del libro Urlare non serve a nulla (Rizzoli): «Normalmente il bambino tiranno non vuole essere tale. Ma se viene coinvolto in decisioni che non è in grado di gestire, entra in confusione. È chiamato a stabilire se andare a dormire, se farlo nella cameretta o nel lettone, se spengere la televisione, se mangiare e cosa mangiare. Sono decisioni che alla sua età semplicemente lui non è in grado di controllare».

In pratica, quando il bambino viene lasciato “solo” nelle decisioni va incontro a tensione e ansia. «Non ha più quei riferimenti necessari a gestire quelle pulsioni e quei desideri che in questa fase della vita sono complessi da decifrare e da tenere sotto controllo» aggiunge l’esperto.

«Per lui» prosegue Novara «esercitare questa specie di dominio sugli adulti è qualcosa di innaturale e doloroso. Il bambino dovrebbe fare il bambino e basta. Il piccolo tiranno è in difficoltà anche nelle relazioni con gli altri bambini. Tende, ad esempio, a mantenere nel gioco un riferimento adulto. Oggi poi i bambini hanno poche occasioni di gioco spontaneo di gruppo, ma tanto tempo scandito da impegni e appuntamenti. Hanno, per così dire, poche vie di fuga».

Cosa fare in questi casi

«Evitare la “servizievolezza”, ossia sostituirsi al bambino anche quando sarebbe autonomo» risponde il pedagogista «dai quattro anni in poi è capace di tagliare i cibi, anche con la forchetta e coltello, vestirsi da solo, anche se non del tutto. Senz’altro mangia da solo, si lava, per lo meno le mani, da solo. Ma non sempre viene lasciato libero di mettere in atto le sue competenze».

Ed è questo il problema che affligge molte famiglie. Ma non solo. «Non si deve neppure anticipare i suoi bisogni, senza permettergli di sentire e vivere i propri desideri. Nel tentativo di rendere felice il proprio bambino, certi genitori lo inondano di proposte: attività, regali, progetti, soddisfacimento di desideri prima ancora che il bambino possa provarli. Ad esempio, la mamma che, all’uscita della scuola elementare, attiva esigenze e voglie della figlia: ‘Andiamo a comprare le figurine? Vuoi gli adesivi come quelli della tua compagna?’ È l’ansia che la propria figlia possa sentirsi inferiore o esclusa. Ma è un’ansia che fa riferimento al vissuto della figlia o a quello materno? I genitori in tal modo finiscono per soffocare i desideri infantili».

Attenzione anche a non diventare i maggiordomi dei propri figli. Prosegue Novara: «No alla continua assistenza. ‘Eccoti l’acqua, ti ho fatto lo zaino per la scuola, ti ho spalmato la marmellata sulla fetta di pane……’. Oppure, invece di potersi esprimere liberamente, il bambino è anticipato dal genitore che dice ‘Voleva dire questo e quello’».

Fin da piccolissimi, i bambini hanno un estremo bisogno di usare le parole, di interagire con il mondo attraverso le parole.

«No anche al ‘discussionismo’: parlare invece di educare. I nostri genitori non parlavano tanto con noi, i nostri nonni ancora meno. Spesso erano silenziosi e distaccati. Per compensare, oggi cerchiamo di dialogare il più possibile con i figli, con il rischio di confondere l’educazione con il parlare e soprattutto con il discutere. Si rischia di far diventare, ad esempio, un bambino di sei anni un opinion leader familiare, ruolo che a quell’età non è in grado di reggere. Il discussionismo attira la tirannia infantile. Si utilizza un codice comunicativo adulto e quindi non adatto all’età del bambino. Occorre attendere che il piccolo diventi in grado di capire esattamente tutte le conseguenze delle proprie azioni, cioè intorno agli otto-nove anni. Prima va data un’informazione unica, precisa e impersonale. Più volte in modo coerente».

Mamma e papà devono imparare ad aspettare, nel frattempo le decisioni le prendono loro, nell’interesse del piccolo. E lui non sarà più tiranno.

Alessandra Margreth
Alessandra Margreth
Nata e cresciuta a Milano, da sempre amante della scrittura, si è laureata in Lettere all’Università Cattolica. Inizia l’attività giornalistica nella redazione di Alba, settimanale femminile della Compagnia di San Paolo, dove ha ricoperto i ruoli di redattore e caposervizio. Dopo esperienze in altre testate a larga diffusione, si trova quasi per caso a collaborare con il settore della salute, si appassiona e decide di proseguire la sua professione in questo campo. Dal 2000 collabora con Repubblica Salute, cartaceo e online. Sempre nel campo della salute ha scritto anche per diverse testate di vari editori. Dato che la divulgazione ha molte facce, ha lavorato anche come autore televisivo e ora alle collaborazioni affianca attività di consulenza nella comunicazione aziendale nel settore. Ama molto il mare, quando può fa lunghe passeggiate in mezzo alla natura. Non ha figli ma dispone di cinque nipoti. Ha letto un po’ di tutto, ora in vacanza sceglie gialli d’autore. Tra le sue mete preferite la Grecia e la Sicilia.  

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