Celiachia: rara la diagnosi, ma non la malattia

Si credeva fosse una malattia rara. Invece, più passa il tempo e più i medici si rendono conto che la celiachia interessa un numero tutt’altro che trascurabile di persone.

Il popolo dei celiaci non è formato soltanto dalle persone che lamentano i sintomi intestinali tipici fin dall’infanzia.

Queste rappresentano, di fatto, soltanto la punta dell’iceberg del reale numero degli affetti, che comprende infatti anche molti individui che iniziano a soffrire soltanto in età adulta di malesseri più sfumati e variabili per tipologia e intensità, a carico di diversi organi e apparati o che, addirittura, stanno apparentemente benissimo.

A ridisegnare l’epidemiologia della malattia celiaca negli ultimi anni ha involontariamente contribuito l’esofago-gastro-duodeno-scopia (Egds), meglio nota semplicemente come gastroscopia, spesso effettuata nell’ambito di indagini dirette ad altri scopi.

L’indagine, però, ha permesso ai clinici di individuare per “visione diretta” (poi confermata dalla biopsia) la presenza inequivocabile di una mucosa intestinale alterata, con villi duodenali “appiattiti” e incapaci di assicurare il corretto assorbimento dei nutrienti introdotti con gli alimenti.

Che cosa implica questa nuova evidenza all’atto pratico?

Sul fronte della diagnosi, un certo dibattito rispetto all’opportunità di proporre i test sul sangue per la ricerca di anticorpi specifici per la malattia con programmi di screening estesi a tutta la popolazione o, almeno, a sottogruppi potenzialmente a maggior rischio.

A partire dai familiari di primo grado di un persona già riconosciuta come celiachia.

Ciò consentirebbe di offrire a un numero molto maggiore di persone celiache la possibilità di modificare opportunamente l’alimentazione quotidiana, eliminando il glutine dalla dieta ed evitando così non soltanto malesseri più o meno importanti nell’immediato, ma anche le più serie complicanze che potrebbero insorgere a distanza, come linfomi intestinali e osteoporosi.

Sono celiaco oppure no?

In attesa che le istituzioni sanitarie stabiliscano come procedere in via ufficiale, la probabilità di riuscire a individuare la malattia fin dall’esordio dipende dalla tipologia e dall’intensità delle sue manifestazioni e dalla sensibilità del medico che le osserva.

I test anticorpali specifici, effettuati dopo un semplice prelievo di sangue, dovrebbero essere sempre eseguiti in presenza di sintomi da malassorbimento, come dimagrimento non voluto o non giustificato, carenze nutrizionali, anemia e affaticamento.

Oppure in caso di disfunzioni gastrointestinali, come dispepsia, difficoltà digestive, inappetenza, diarrea.

Nel bambino che mangia in modo sufficiente e bilanciato, a far sospettare la malattia deve essere in primo luogo l’accrescimento stentato o non in linea con i normali parametri di crescita, specie nei primi anni di vita.

Ma non vanno trascurati neppure segnali diversi, quali instabilità umorale, irritabilità e nervosismo.

L’Egds rappresenta, invece, l’indagine considerata come “gold standard” per la caratterizzazione precisa della gravità della malattia, ed è l’unica tecnica adeguata per confermarne la presenza in quella piccola quota di persone che, pur non presentando anticorpi specifici nel sangue, restano a forte sospetto di celiachia.

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Rosanna Feroldi
Rosanna Feroldi
Da adolescente le avevano detto di fare il liceo classico e ha scelto lo scientifico. Alla maturità, le hanno detto di iscriversi Lettere e Filosofia e ha puntato su Biologia. Dopo laurea e tirocinio, al dottorato in elettrofisiologia ha preferito un corso di comunicazione e giornalismo scientifico della Facoltà di Farmacia - Università Statale di Milano. Insomma, non è il tipo che si lascia convincere facilmente. Da lì, è iniziato, più per gioco che per scelta, un percorso professionale che continua con soddisfazione da quasi vent'anni, passando da attività di consulente per la comunicazione su salute e stili di vita sani per il Progetto Città sane - Comune di Milano alla proficua collaborazione con la Fondazione San Raffaele di Milano, dove per 13 anni si è occupata di realizzare il magazine dell'Ospedale San Raffaele destinato ai pazienti e materiale divulgativo distribuito nell'ambito di campagne di sensibilizzazione, nonché di supportare l'attività di ufficio stampa. Contemporaneamente, entusiasta, mai stanca ed esagerando anche un po', ha interagito con numerose realtà editoriali come giornalista scientifica e medical writer, realizzando contenuti per riviste dirette al pubblico, ai medici e ai farmacisti. Il sopravvento del web ha cambiato molte cose, ma non l'ha indotta a desistere. Così, eccola ora alle prese prevalentemente con progetti editoriali online e attività di comunicazione/reportistica medico-scientifica nelle aree cliniche più disparate. A volte, si chiede come abbia fatto, altre come continuerà. The show must go on.

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